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GIOVANNI PINDEMONTE
– Le donne e il
teatro –
(due
parti – sei quadri)
[Testo tutelato dalla Società Italiana degli Autori e
degli Editori (S.I.A.E.)]
Breve sinossi:
Dopo più di due
secoli è doveroso parlare di un autore teatrale un po’ dimenticato perché
oscurato, forse, dalla fama poetica del fratello.
Giovanni
Pindemonte rivive con le sue avventure, i suoi sforzi per un rinnovamento del
teatro, la sua passione politica, e, perché no, con le sue debolezze amorose
che rivelano un senso di umanità che lo avvicina al nostro sentire.
Durata: due parti
Genere: drammatico
12 personaggi (9 uomini e 3 donne)
LA SCENA:
Fondali di scena che vengono calati al momento; gli
eventuali mobili verranno spinti in scena.
LE PERSONE:
Giovanni
Pindemonte
Rosa
(sua amante)
Berardo
(suo amico)
Ippolito
(suo fratello)
Vittoria
(sua moglie)
Luigi
(suo cameriere)
Comandante
della fortezza di Palmanova
Soldato
addetto alla fortezza di Palmanova
Durand
(amico di Ippolito)
Martin
(amico di Ippolito)
Jannette
(amica di Ippolito)
Locandiere
(anche Facchino)
PRIMA PARTE
I° QUADRO
Villa di Giovanni a Verona. Di fronte la facciata che dà
sul giardino con porta – finestra. Un tavolino e alcune sedie.
E' notte. Giovanni entra e si avvicina a Rosa che è in
piedi di fronte al giardino. Sono tutti e due in tenuta da notte.
GIOVANNI
– Sei qui,
dunque, anima mia?
ROSA
– E dove pensavi
che fossi?
GIOVANNI
– Un sogno
orribile è stato, ti tenevo abbracciata e a un certo punto sentivo di stringere
l'aria contro di me, tu non c'eri e io ho pensato che fra te e me non fosse
successo nulla questa notte… cara! Mi sono svegliato tremante di paura, avevo
sognato, dunque? Eppure nelle coltri era rimasto l'avvallamento del tuo corpo e
quello del capo sul cuscino… ma non bastavano come prova del tuo passaggio, non
bastava il tuo profumo che riempiva ancora la camera, tu non c'eri accanto a me
e io ero solo con il ricordo meraviglioso di qualcosa che non era mai successa.
Eccoti qui, invece, viva, con la tua carne che si abbandona alle mie mani!...
(l'abbraccia)
ROSA
– Per me, amore,
è stato diverso: ho vissuto in piena coscienza la nostra avventura e non ho mai
potuto accusare un qualunque sogno perché stanotte non ho dormito un solo
istante, sempre con gli occhi spalancati nel buio.
GIOVANNI
– Mia povera
Rosa, non l'immaginavo davvero. Ora ricordo di aver sentito sul viso il tuo
respiro lieve, un alito appena, appena accennato che credevo venisse dal
profondo del sonno.
ROSA
– Ho sentito
battere le ore da un orologio della villa, poi un usignolo ha cantato da un
albero di fronte e subito un altro ha risposto.
GIOVANNI
– Una storia
d'amore nell'aria, sopra le nostre teste.
ROSA
– E' stato
allora che sono scesa dal letto, silenziosamente, per non interromperti il
sonno.
GIOVANNI
– Quel sonno al
quale tu non avevi ancora ceduto.
ROSA
– L'emozione di
trovarci insieme era più forte. Non immaginavo che la realtà avrebbe scosso
così a fondo la mia esistenza.
GIOVANNI
– Insieme
finalmente, pieni di amore! La nostra vicenda è uscita alla luce del sole.
ROSA
– Ha lasciato
l'ombra che finora l'ha protetta: è nuda adesso sotto gli occhi di tutti.
Riusciremo a difenderla e a salvarla?
GIOVANNI
– Stsss… via
questi pensieri che turbano la tua mente. Sta per incominciare il nostro primo
giorno insieme e nulla deve offuscare la nostra gioia.
ROSA
– Vorrei
mandarli via quei pensieri… oh, Giovanni, se lo vorrei! Aiutami tu, caro. Dimmi
che fra noi tutto continuerà come stanotte, senza che nessun ostacolo venga a
frapporsi.
GIOVANNI
– Ostacoli ci
saranno, è inutile illudersi, ma il tuo amore riuscirà a superarli.
ROSA
– Come potrò
farlo se mi sento così priva di forze?
GIOVANNI
– E' l'alba,
vedi. Che cosa c'è di più debole di quel lieve chiarore che fra poco inonderà
il cielo di luce? Quella che tu chiami la tua debolezza è invece la sorgente
del tuo vigore. E poi non dimenticare che ci sarò io accanto a te.
ROSA
– Ed è su questo
che conto.
GIOVANNI
– Non è soltanto
con i baci e le carezze che intendo aiutarti.
ROSA
– Non ne
dubitavo certo. Perdonami però se il mio contributo sarà così scarso.
GIOVANNI
– Incominciamo.
a cancellare dal tuo viso il turbamento nel quale navigano i tuoi occhi.
ROSA
– Perdonami
anche per questo, per la serenità che non riesco a darti.
GIOVANNI
– Come potrei
pretendere di trovare nel tuo cuore quella pace che proprio io ho distrutto?
ROSA
– Di che parli,
amore?
GIOVANNI
– Di averti
sconvolto la vita con la mia decisione.
ROSA
– Vuoi
appropriarti di ciò che insieme abbiamo preparato e attuato?
GIOVANNI
– Lo strappo
decisivo è stato solo opera mia.
ROSA
– E l'ansia con
la quale l'avevo a lungo aspettato? Mille volte l'avevo sognato e consumato nel
profondo dell'anima. La nostra storia non poteva continuare a svolgersi nel
buio: aveva bisogno di aria e di luce.
GIOVANNI
– Di sincerità
aveva bisogno, per presentarsi al mondo con la propria faccia fresca e pulita.
I gesti compiuti nella notte dovevano riacquistare dignità e decoro.
ROSA
– Abbiamo agito
giustamente, dunque?
GIOVANNI
– Certo. E
coloro che ci conoscono e ci stimano non potranno che approvarci.
ROSA
– Sì… ma
approverà mio marito?
GIOVANNI
– Mi spiace che
tu continui a chiamarlo in quel modo. Può essere chiamato così un uomo che da
lunghi anni ha dimenticato di avere una moglie?
ROSA
– Non è certo la
mia persona che potrebbe rivendicare, ma il diritto che gli assegna la legge.
GIOVANNI
– Abbiamo già
discusso su ciò che devo fare. Andrò a parlargli e a spiegargli ogni cosa. Se è
un essere ragionevole non potrà fare a meno di ascoltarmi e di cercare con me
la soluzione migliore.
ROSA
– E se invece
non pensa che al suo orgoglio ferito, al modo di poter esercitare la sua
vendetta e a tutto il male che può causarci?
GIOVANNI
– Non riesci a
prevedere il suo comportamento?
ROSA
– Per me è un
libro chiuso. Non c'è mai stata fra noi la minima confidenza. No, Giovanni, non
sono in grado di sapere come si comporterà in questa circostanza.
GIOVANNI
– La nostra
relazione non è certo una novità per lui, e noi, d'altra parte, non abbiamo
fatto nulla per nasconderla.
ROSA
– Anzi,
l'abbiamo resa pubblica con un gesto sincero, lo strappo definitivo come tu
l'hai chiamato.
GIOVANNI
– Era quello che
aspettava, forse, per decidere la sua azione. S'è fatto chiaro anche per lui,
adesso, e non vorrà portare avanti un'unione che non ha più alcuna ragione di
essere. Abbi fiducia,cara, forse per noi sta per incominciare la stagione più
bella per il nostro amore.
ROSA
– Se potessi
davvero sperarlo!
GIOVANNI
– Devi esserne
certa, Rosa. Solo alla luce di questa possibilità i tuoi occhi si sono accesi
all'improvviso.
ROSA
– E' la speranza
di trovarti accanto a me in questa lotta.
GIOVANNI
– Non speranza,
ma certezza. Come potrei muovere un passo o un gesto, o anche un pensiero da
solo, senza sentire l'onda del tuo amore accanto a me, sopra di me a
travolgermi?
ROSA
– E sarà sempre
così, vero?
GIOVANNI
– Sì, anima mia,
non esiste alcuna possibilità di mutamento. E' un mondo di certezze intorno a
noi. Sta spuntando il giorno, vedi? I primi raggi di sole di mischiano alle
ultime ombre notturne, i fiori che hanno nascosto la loro intimità si
spalancano di nuovo alla luce e gli uccelli ridanno vita ad alberi e cespugli.
Tutto è sicuro intorno a noi nella ripetizione di ciò che conosciamo e che sa
ridarci fiducia…
(La viva luce di un salto temporale si accende nel punto
in cui Giovanni e Rosa scompaiono. Giovanni rientra in scena: ha lasciato la
veste da camera e indossa un abito da passeggio, ha un libro in mano. Quasi
contemporaneamente il cameriere di Giovani entra venendo dalla casa)
GIOVANNI
– Hanno suonato,
vero?
CAMERIERE
– Sì, signor
marchese: è il vostro amico Berardo… eccolo che arriva…
(entra Berardo e il cameriere esce)
GIOVANNI
– Berardo!
(corre ad abbracciarlo)… ci sono novità?
Ti aspettavo con ansia.
BERARDO
– Me
l'immaginavo, per questo non vedevo l'ora di arrivare.
GIOVANNI
– Siedi, sarai
stanco. (Berardo siede)
BERARDO
– E' arrivata la
posta da Venezia.
GIOVANNI
– Notizie buone
o cattive?
BERARDO
– Ottime, direi.
A giudizio almeno del mio corrispondente.
GIOVANNI
– E a tuo
giudizio o al mio?
BERARDO
– Direi che…
GIOVANNI
– No, aspetta!
(versa da una bottiglia sul tavolo e gli
porge il bicchiere) Rinfrescati un po' prima, non è il caso di affrettarsi.
BERARDO
–
(beve) Vittoria completa sul Garavetta.
GIOVANNI
– Completa?
BERARDO
– Senza alcuna
attenuante. Ben gli sta a quel tanghero! Ha voluto mettere in piazza la sua
disavventura e non ha ottenuto altro che coprirsi di ridicolo.
GIOVANNI
– C'è qualche
disposizione per Rosa?
BERARDO
– Sì, la
sentenza riguarda anche lei.
GIOVANNI
– Non potevano
davvero dimenticarla.
BERARDO
– No certo.
Anzi, direi che su di essa hanno scaricato il rigore del giudizio.
GIOVANNI
– E che cosa
hanno deciso?
BERARDO
– Bisogna tener
conto del vincolo matrimoniale infranto.
GIOVANNI
– Ma se proprio
io le ho fatto ottenere il divorzio dal Garavetta?
BERARDO
– Ma la colpa di
Rosa risaliva a un'epoca precedente.
GIOVANNI
– E come s'è
pronunciato il Consiglio?
BERARDO
– Non è escluso
che la chiesa abbia esercitato pressioni…
GIOVANNI
– Che cosa hanno
deciso per lei, insomma?!
BERARDO
– Il suo ritiro
in un convento.
GIOVANNI
– Questa è la
sentenza, dunque?!
BERARDO
– Sarà resa
pubblica fra qualche giorno, esaurite le normali registrazioni, così mi ha
assicurato il mio corrispondente.
GIOVANNI
– Povera Rosa,
bisogna aiutarla in qualche modo. Non l'abbandonerò certo, anche se l'amore non
c'è più.
BERARDO
– Faremo tutto
quello che è possibile fare.
GIOVANNI
– Intanto
bisogna sapere in quale convento è stata confinata.
BERARDO
– E' facile
venirne a conoscenza. Ci penserò io a scoprirlo.
GIOVANNI
– Caro Berardo,
sei un amico vero.
BERARDO
– Per così poco?
GIOVANNI
– Tutta la mia
vita, se ci penso, si svolge sotto la tua protezione.
BERARDO
– Non
attribuirmi troppi meriti. Dimentichi il prestigio che mi viene dalla tua
amicizia.
GIOVANNI
– Anche il
Consiglio che ha giudicato il mio caso ha avuto per me le medesime attenzioni?
BERARDO
– Il Consiglio è
stato irreprensibile nel giudizio.
GIOVANNI
– E non trovi
strano che il Garavetta sia stato condannato allo scorno, Rosa alla
segregazione in convento, e io esca da quest'avventura completamente illeso?
BERARDO
– E quale
condanna potrebbe mai essere inflitta al marchese Giovani Pindemonte,
applaudito autore drammatico, poeta civile, fratello maggiore di Ippolito
Pindemonte, gloria del nostro paese?
GIOVANNI
– Sono un
cittadino comune davanti alla legge.
BERARDO
– Un nobile non
è mai un cittadino comune, almeno nella tua circostanza.
GIOVANNI
– Stai parlando
del mio intrigo amoroso?
BERARDO
– S'è mai visto
un nobile punito per una tresca del genere? Dài un'occhiata a quello che
succede in città e in campagna fra i padroni e la servitù. Fatti raccontare dai
tuoi conoscenti che cosa succede alle semplici ragazze che capitano nel loro
raggio d'azione.
GIOVANNI
– Vuoi che non
lo sappia? Ma noi ci siamo sempre dichiarati perché sia posta fine a questi
privilegi e ogni individuo sia eguale agli altri, benestante o no, nobile o no.
E poi, fra me e Rosa c'è stato amore vero.
BERARDO
– Che oggi è
venuto a mancare.
GIOVANNI
– Questa è
un'altra faccenda, appartiene alla volubilità del nostro carattere, all'ansia
di scoprire sempre nuovi territori, alla facilità di lasciarsi conquistare da
uno sguardo o un sorriso.
BERARDO
– Un nobile è
maggiormente soggetto a queste tentazioni ed è cosa saggia che i giudici ne
tengano conto.
GIOVANNI
– E' l'amicizia
che nutri per me, caro Berardo, che ti fa parlare così, o hai veramente mutato
il modo di pensare?
BERARDO
– Ho letto le
opere francesi del marchese de Sade.
GIOVANNI
– Che, se non
sbaglio, è rinchiuso in carcere a Parigi.
BERARDO
– Sono stati i
nobili che ha ritratto nelle loro dissolutezze a spalancargli la porta della
prigione. La sua denuncia però rimane ben chiara.
GIOVANNI
– E' su questa
base, dunque, che è avvenuta la mia assoluzione?
BERARDO
– Via, Giovanni,
non torturarti più: la tua assoluzione è un atto di giustizia dovuto. Volevi
essere condannato per un rapporto con un essere adulto e consenziente, maturato
sotto il segno della reciproca passione? un'avventura innocente se la
paragoniamo alle imprese perpetrate dai tuoi pari.
GIOVANNI
– Io non sono
uno di loro, lo sai bene. Mi sento schiacciare dal peso di ciò che ho fatto a
quella povera donna.
BERARDO
– Non è stato
tutto male, lo sai, l'hai liberata da un marito che avvelenava ogni attimo
della sua esistenza, le hai dato un figlio che sta per nascere.
GIOVANNI
– A loro due
provvederò io, com'è naturale.
BERARDO
– Perché vuoi
condannarti, dunque?
GIOVANNI
– Per la mia
colpevole incostanza, la mia infedeltà capricciosa e superficiale. Rosa mi
amava appassionatamente e io non sono più stato al suo fianco.
BERARDO
– Non l'hai
abbandonata, però.
GIOVANNI
– Certo che no!
E' importante ora rimediare alle decisioni del Consiglio.
BERARDO
– Che cosa pensi
di fare?
GIOVANNI
– Prima di tutto
sapere in quale convento si trova.
BERARDO
– Consideralo
già fatto. E poi?
GIOVANNI
– E poi farla
fuggire, è naturale!
II° QUADRO
(Locale di passaggio nella fortezza di Palmanova. Il
capitano comandante al centro, entra un soldato che saluta il superiore.)
CAPITANO
–
(indicando il calendario appeso alla parete)
Oggi è il sette marzo e lì siamo fermi al dieci febbraio. Non passa mai il
tempo alla fortezza di Palmanova? Va bene che qui i giorni sono un po' tutti
eguali, ma il tempo va avanti lo stesso. Strappa i fogli scaduti.
SOLDATO
– Subito, signor
capitano. (esegue)
CAPITANO
– Ho sentito un
certo fracasso stanotte. Cos'è stato?
SOLDATO
– E' arrivato il
nuovo prigioniero.
CAPITANO
– E' già
arrivato, dunque!... avrei voluto esserci io a riceverlo. Che cella gli hai
assegnato?
SOLDATO
– La diciannove,
signor capitano.
CAPITANO
– Non va bene.
Trasferiscilo alla dodici; lì almeno potrà vedere il sole quando sorge.
SOLDATO
– Sarà fatto,
signor capitano. Il tempo di trasferire chi la occupa e il nuovo prigioniero
verrà assegnato alla dodici.
CAPITANO
– Non chiamarlo
più prigioniero: il nuovo arrivato è nostro ospite.
SOLDATO
– Come
desiderate.
CAPITANO
– Sai di chi si
tratta?
SOLDATO
– No, signor
capitano.
CAPITANO
– E' il marchese
Giovanni Pindemonte di Verona, già membro del Maggior Consiglio a Venezia e
podestà di Vicenza, noto autore drammatico e fratello di Ippolito Pindemonte,
poeta e scrittore.
SOLDATO
– Nientemeno!
C'è da meravigliarsi a vederlo qua dentro.
CAPITANO
– Non lo sai che
la giustizia non guarda in faccia nessuno?
SOLDATO
– Così dicono,
ma io qui dentro ho visto soltanto morti di fame. Deve averla fatta davvero
grossa questo signore.
CAPITANO
– C'è di mezzo
una donna sposata.
SOLDATO
– Una faccenda
di corna!? Ma allora dovrebbero rinchiudere in fortezza la maggior parte dei
maschi dello stato.
CAPITANO
– Ma qui il
marito ha sporto querela e il giudice non ha potuto ignorare la denuncia.
SOLDATO
– Ha avuto un
bel coraggio quel marito a denunciare un personaggio di questo peso.
CAPITANO
– E' anche lui
un nobile. Fa parte della famiglia Martinengo, ben nota a Venezia.
SOLDATO
– Anche questa
non l'avevo mai sentita! Due nobili che leticano e che ricorrono alla giustizia
invece di risolverla fra loro.
CAPITANO
– E chi se
l'aspettava! Pensa un po', il Pindemonte ha schiaffeggiato il Martinengo in
piazza San Marco, a Venezia, davanti a tutti.
SOLDATO
– E non c'è
scappato fuori il duello?
CAPITANO
– Tutti ci
avrebbero giurato. Ma il Martinengo ha preferito rivolgersi al giudice, anziché
alla spada.
SOLDATO
– Sui gusti non
si discute. D'altra parte, essere infilzati da una lama non piace a nessuno.
CAPITANO
– Così non
rischia nulla, e in più, ha la soddisfazione di vedere il rivale marcire in
carcere.
SOLDATO
– Cosa fareste
voi se vi capitasse un fatto del genere?
CAPITANO
– A uno scapolo
come me non capita di sicuro. Pensiamo al lavoro adesso, in che condizioni si
trova la cella numero dodici?
SOLDATO
– Farò dare una
lavata come si deve e metterò un materasso nuovo.
CAPITANO
– Sicuramente il
marchese farà portare dai suoi servi un letto a suo piacere.
SOLDATO
– Ma non è
contro il regolamento?
CAPITANO
– Credi che per
il nostro ospite esista il regolamento? Non è un nostro prigioniero,
ricordatelo: siamo noi, se mai, suoi prigionieri.
SOLDATO
– Addirittura!
CAPITANO
– Con lui il
nostro modo di parlare e di comportarci sarà quello che lui avrà deciso, non lo
dimenticare. Lui resterà qui soltanto otto mesi, e sta in noi rendergli, per
quanto possibile, non sgradevole il soggiorno. Noi invece abbiamo davanti tutta
una vita che lui, quando sarà fuori di qui, può far diventare molto difficile
con una sola parola.
SOLDATO
– Ho capito come
devo comportarmi.
CAPITANO
– Bravo! ero
sicuro che ci saresti arrivato.
SOLDATO
– Vado a
preparare la cella dodici. (esce, ma
ritorna subito indietro) Il nostro ospite s'è alzato e m'ha fatto un cenno
dalle sbarre.
CAPITANO
– Vorrà uscire
dalla cella… vai ad aprire, presto! (il
soldato esce e ritorna subito dopo)
SOLDATO
– Ho aperto la
cella.
CAPITANO
– E che cosa fa
il nostro ospite?
SOLDATO
–
(guardando) Credo che voglia venir qui,
signor capitano.
CAPITANO
– Togli di mezzo
quella sedia… là, contro il muro. (il
soldato esegue. Entra Giovanni Pindemonte)
CAPITANO
– Buongiorno,
signor marchese, ieri non sono stato avvertito in tempo del vostro arrivo… mi
dispiace, avrei voluto avere l'onore di ricevervi.
GIOVANNI
– Siete voi,
captano, il comandante della fortezza?
CAPITANO
– Sì. signor
marchese. Ho dato disposizioni perché vi venga assegnato il miglior locale che
abbiamo.
GIOVANNI
– Vi ringrazio.
CAPITANO
– Non è niente
di eccezionale, purtroppo: il meglio che offre la fortezza è assai poco, ma
almeno è posizionato a levante e da lì si vede sorgere il sole.
GIOVANNI
– E'
un'attenzione che apprezzo. Grazie.
CAPITANO
– Procurerò in
ogni modo di rendere il vostro soggiorno più comodo. Esprimete pure i vostri
desideri: farò tutto il possibile per soddisfarli.
GIOVANNI
– Vi prendo in
parola, capitano. Avrei bisogno di un tavolo, di carta, penna e inchiostro.
CAPITANO
–
(al soldato) Hai sentito? Fai portare
nell'alloggio del signor marchese un tavolo e tutto l'occorrente per scrivere.
SOLDATO
– Provvederò
immediatamente. (esce, ma rientra subito)
E' arrivato un signore che desidera vedere il signor marchese. Ha detto di
essere un suo amico.
GIOVANNI
– E' Berardo,
non può trattarsi che di lui!
CAPITANO
– Fai passare,
presto! (il soldato esce ed entra
Berardo)
GIOVANNI
– Berardo!
(va ad abbracciarlo) Non osavo sperare
di rivederti così presto. Fortunatamente mi ero ingannato.
CAPITANO
– Se i signori
permettono io mi ritiro. (esce)
BERARDO
– Sono
addolorato di vederti in questo luogo.
GIOVANNI
– Potevo
capitare peggio. Qui, da quel che ho capito, la permanenza non sarà troppo
dura. Avrò tempo di scrivere e di leggere; otto mesi passeranno presto. Hai
notizie di Flavia?
BERARDO
– Si è chiusa
nelle sue stanze e nessuno riesce a vederla.
GIOVANNI
– Neppure il
marito?
BERARDO
– Soprattutto
lui: la denuncia e il processo che è seguito sono fatti che non potrà mai
dimenticare. Senza parlare della tua condanna.
GIOVANNI
– Povera cara,
come vorrei porre fine alle sue sofferenze! Ma dovrò aspettare otto mesi, e
questo ritardo non può che sconvolgermi. Le scriverò una lettera e spero che tu
vorrai recapitargliela.
BERARDO
– Lo farò
volentieri. Ma ho una buona notizia da darti: ieri sera ero a Venezia, al San
Crisostomo, alla prima recita della tua nuova tragedia.
GIOVANNI
– "Elena e
Gerardo", e com'è stata accolta?
BERARDO
– Il pubblico
s'è spellato le mani per applaudire. Un trionfo come da tempo non accadeva in
quel teatro.
GIOVANNI
– Ma se di lì
sono passati gli autori più famosi e le migliori compagnie.
BERARDO
– E proprio lì
Giovanni Pindemonte ha lasciato il suo segno.
GIOVANNI
– E' una notizia
che mi riempie di gioia. E non solo per un lavoro applaudito, ma perché proprio
quel lavoro è il primo del mio nuovo modo di concepire la tragedia.
BERARDO
– Sì, ne abbiamo
parlato a lungo.
GIOVANNI
– E ora
finalmente ho avuto il coraggio di attuare il disegno.
BERARDO
– L'esperimento
è riuscito in pieno.
GIOVANNI
– Calma,
Berardo, la tua amicizia non deve offuscare il senso critico.
BERARDO
– Mi limito a
riportare fedelmente il giudizio del pubblico.
GIOVANNI
– Ma si tratta
proprio di giudizio che nasce dal profondo, oppure di un moto superficiale di
infatuazione momentanea?
BERARDO
– Che si
trasforma in fenomeno collettivo? Via, Giovanni, accetta la realtà di ciò che è
accaduto. Ho l'impressione che il successo ti faccia paura.
GIOVANNI
– E non ho
ragione, forse? il successo ti pone di fronte all'attenzione di tutti, ai
giudizi malevoli specialmente.
BERARDO
– Finché restano
giudizi e non diventano azioni non c'è da temere.
GIOVANNI
– Dipende da chi
sono espressi. Alcuni possono trasformarsi in armi pericolose o addirittura
micidiali.
BERARDO
– Dipende dalle
posizioni che vogliono difendere, soprattutto. Come si può tener conto delle
parole di chi vuol difendere il vecchio contro l'avanzare del nuovo?
GIOVANNI
– Bisogna che il
nuovo nasca spontaneamente nel solco della tradizione, senza forzature.
Altrimenti si tratta di un'operazione presuntuosa destinata a non ottenere
consensi.
BERARDO
– Madame de
Stael ha rivolto alcuni consigli a Vincenzo Monti per i suoi lavori teatrali:
abbandonare gli argomenti storici e politici per privilegiare la fantasia e i
sentimenti dell'uomo.
GIOVANNI
– Sono idee che
condivido. E che certamente hai ritrovato nel lavoro che è andato in scena
Venezia.
BERARDO
– "Elena e
Gerardo", la tragedia ispirata a una novella del Bandello, la stessa che
ha seguito Shakespeare per "Romeo e Giulietta". Madame de Stael
sarebbe stata soddisfatta: qui, protagonista assoluto è l'amore che lega i due
giovani amanti.
GIOVANNI
– E non hai
fatto caso all'altro esperimento che ho compiuto?
BERARDO
– L'abbandono
delle unità aristoteliche che finora hanno dettato legge sulla tragedia?
Finalmente qualcuno ha provato a scrollarsi di dosso quei vincoli che, usati in
modo rigido, possono pregiudicare la creatività di un poeta.
GIOVANNI
– Diamo ragione,
dunque, a coloro che mi hanno accusato di aver tradito e umiliato la tragedia
classica?
BERARDO
– Sono coloro
che non hanno compreso i tempi nuovi che stiamo vivendo. Il pubblico invece ti
ha capito e ti segue: questo deve bastarti.
GIOVANNI
– Mi fa bene
parlare con te, Berardo. Il tuo ottimismo riesce a farmi accettare anche la
triste situazione in cui mi trovo.
BERARDO
– Parliamone
allora. In che modo possiamo farla diventare meno triste?
GIOVANNI
– Compito
impossibile, Berardo, lontano da Flavia per me non può esistere felicità.
BERARDO
– Può esistere
una vita più comoda anche senza la signora Martinengo. Intanto ho dato un
ordine al tuo cameriere.
GIOVANNI
– Che cosa gli
hai ordinato?
BERARDO
– Di fare
arrivare qui il tuo letto. Non vorrai dormire sui pagliericci della fortezza?
GIOVANNI
– Grazie del
pensiero, io non ci avevo badato.
BERARDO
– Lo supponevo.
Così come non avrai di certo pensato ai pasti da consumare.
GIOVANNI
– Effettivamente…
BERARDO
– Ci ho pensato
io, però. Il cibo della fortezza non è certamente di tuo gusto, ma c'è una
trattoria qui vicino che s'è impegnata a mandarti regolarmente i pasti, secondo
i tuoi desideri.
GIOVANNI
– Grazie, amico
mio, te ne sarò sempre riconoscente.
BERARDO
– E poi i libri.
Mi farai un elenco di ciò che desideri: me ne occuperò io.
(entra il soldato con il tavolo)
SOLDATO
– Credo che
questo vada bene. Di meglio qui non c'è altro.
GOVANNI
– Va benissimo.
Grazie. (segue il soldato con il tavolo;
a Berardo) Vado subito a scrivere la lettera per Flavia.
BERARDO
– Mi fermo ad
aspettarla. La recapiterò immediatamente.
(Salto temporale. Berardo entra e Giovanni gli corre
incontro.)
GIOVANNI
– Berardo!...
finalmente!... mi consumavo nell'aspettarti… hai posta per me?
BERARDO
–
(porgendo) C'è una lettera di tuo
fratello.
GIOVANNI
– Ma di Flavia
non c'è nulla?!
BERARDO
– No, Giovanni,
mi spiace… ho aspettato a lungo prima di venire qui… volevo portarti una buona
notizia, ma purtroppo la lettera di risposta non c'era.
GIOVANNI
– Tu avevi
consegnato personalmente la mia lettera?
BERARDO
– Certo.
GIOVANNI
– E come hai
fatto se è chiusa nelle sue stanze?
BERARDO
– Ho fatto
amicizia con la sua cameriera personale.
GIOVANNI
– La lettera
sarà stata sequestrata prima di arrivare a lei.
BERARDO
– La sua
cameriera mi ha assicurato di averla affidata alle sue mani.
GIOVANNI
– Allora non
resta che aspettare: se è sorvegliata non potrà neppure scrivere.
BERARDO
– E' probabile.
GIOVANNI
– Perdonami,
Berardo, mi sto comportando molto male con te: ti tratto come un semplice
fattorino, tu, il mio amico migliore. Ma devi capire il mio tormento, essere
qui lontano da lei e non ricevere sue notizie… è troppo duro da sopportare. Ho
due cerchi di ferro che mi stringono dolorosamente: uno è intorno alla testa e
l'altro al cuore. Come posso spezzarli?
BERARDO
– Coraggio,
Giovanni, cerca di resistere ancora un po'. Flavia sa bene delle condizioni in
cui ti trovi e vorrebbe certamente alleviare le tue pene, ma di sicuro è
sorvegliata scrupolosamente: ogni passo, ogni gesto è scrutato attentamente. Ma
riusciremo a trovare uno spiraglio per entrare! abbi fiducia, Giovanni, io non
ti abbandonerò a questo punto. (Giovanni
va d'impulso ad abbracciare l'amico)
GIOVANNI
– Grazie,
Berardo, le tue parole sono un balsamo per le ferite. Stringerò i denti e
sopporterò questo silenzio uno, due giorni e anche più, finchè quest'attesa non
stronchi ogni mia capacità di resistere.
BERARDO
– Così,
Giovanni, voglio sentirti parlare! Le avversità si superano in questo modo. La
vittoria è vicina senza alcun dubbio.
(Salto temporale)
VOCE DI GIOVANNI
– Non c'è
nessuno qui?... (entra il soldato da
destra e da sinistra Giovanni) Ah, siete qui!
SOLDATO
– Avete qualcosa
da comandare, signor marchese?
GIOVANNI
– Ho una domanda
da farvi: quando arriva la posta qui?
SOLDATO
– Non c'è un
giorno preciso, arriva quando c'è qualcosa da consegnare. Prima di passare alla
distribuzione, però, il capitano, secondo il regolamento, deve leggere il
contenuto di ogni lettera e decidere se può essere consegnata o no. Ma questo
non vale per voi, signor marchese: per voi non c'è alcun controllo sulla posta
in arrivo né su quella in partenza. Anzi, ho l'ordine di consegnarvi
immediatamente ogni messaggio che dovesse arrivarvi.
GIOVANNI
– E non è
arrivato niente, da dieci giorni che son qui?!
SOLDATO
– No, signor
marchese, ma ho il dovere di avvertirvi che, a volte, la posta di alcuni ospiti
della fortezza non arriva fin qui, ma è trattenuta dalla polizia o dagli
inquisitori di stato. Non credo, però che questo sia il vostro caso.
GIOVANNI
– Ne siete
proprio sicuro?
SOLDATO
– Se voi mi
autorizzate posso domandarlo al portalettere.
GIOVANNI
– Ve ne sarei
riconoscente.
SOLDATO
– Sapete, non
c'è niente di sicuro perché i messaggi potrebbero essere stati confiscati prima
di arrivare a lui, ma una traccia del sequestro dovrebbe essere rimasta.
GIOVANNI
– Vi prego di
interessarvene. E' un accertamento che mi sta a cuore.
SOLDATO
– Per quello che
posso fare, contateci pure, signor marchese.
(Nuovo salto temporale. All'entrata di Berardo, Giovanni
che è abbandonato su una sedia con un libro in mano, fa l'atto di alzarsi, ma
rinuncia. Berardo si avvicina lentamente.)
GIOVANNI
– Niente di ciò
che aspetto, vero? Lo capisco dal tuo passo; se ci fossero novità correresti
verso di me col viso gioioso. Ma non ci sono lettere, né buone notizie. Non
occorre neanche che tu faccia sforzi per abbellire questa triste realtà. Lo so:
Flavia è chiusa a doppia chiave nelle sue stanze, Una segregazione disumana che
nessuno è capace di spezzare. Solo io, quando potrò uscire da questa fortezza,
sarò in grado di abbatterla con un atto di forza. E' così, mio buon Berardo?
BERARDO
– No, Giovanni,
le cose non stanno in questo modo. So di accrescere il tuo dolore, ma è
necessario che tu conosca la verità. Flavia non è segregata, ma è libera come
prima.
GIOVANNI
–
(si scuote dal torpore) Che dici
mai?!... ma allora, ohimé, sicuramente qualche prelato s'è messo di mezzo e
Flavia è stata fatta riconciliare col marito, con quell'individuo vile e
meschino al quale, per infame decisione della sua famiglia, ha dovuto legare la
propria esistenza. E' accaduto questo, Berardo?
BERARDO
– No, Giovanni,
sei del tutto fuori strada. Vorrei poter tacere per non arrecarti dolore, ma il
silenzio, anche se pietoso, non è stato mai d'aiuto. La tua Flavia ha ripreso
la vita di sempre. Sono riuscito ad avvicinarla e le ho ricordato la tua
conduzione qui a Palmanova. "Mi rincresce" ha risposto "che le
cose siano andate in questo modo. Ma in fondo pochi mesi di fortezza passano in
fretta." Allora l'ho pregata di rispondere alle tue lettere per
assicurarti del suo sentimento. "Questo non lo posso fare" ha
risposto "perché mi sono innamorata di un altro." Ecco la verità,
caro Giovanni. Sai con chi ti ha sostituito la tua Flavia? Con un piccolo
mercante di stoffe! (il libro che era
nelle mani di Giovanni cade a terra)
III° QUADRO
(La stessa scena del I° Quadro. Il cameriere di Giovanni
entra con in mano un lume. Suono di campanello, il cameriere ravviva la fiamma
del lume ed entra in casa. Riappare poco dopo precedendo Vittoria, la moglie di
Giovanni.)
VITTORIA
– Il marchese
non è ancora arrivato, dunque?
CAMERIERE
– No, signora
marchesa. Penso che sia ancora a teatro: stasera è stata rappresentata una sua
nuova tragedia.
VITTORIA
– Vengo appunto
di lì, ma il marchese s'è ritirato all'abbassarsi del sipario sull'ultimo atto,
è salito sulla sua carrozza ed è scomparso. Io credevo di trovarlo alla villa.
CAMERIERE
– Forse s'è
fermato in città.
VITTORIA
– E avrebbe
preso la carrozza?
CAMERIERE
– E' vero, mi
scusi. Però, quando rappresentano un suo lavoro, al termine dello spettacolo va
a cena con gli amici.
VITTORIA
– Ma stavolta
non è andata così perché alla fine del lavoro ha lasciato il teatro da solo.
CAMERIERE
– Non so cosa
dire, signora marchesa.
VITTORIA
– Com'è il suo
umore stasera? A teatro non ho parlato molto con lui, assediato com'era da
amici e conoscenti.
CAMERIERE
– Per quel che
posso giudicare nel breve spazio di tempo che ha impiegato a lasciare il suo
studio e a salire in carrozza per arrivare a Verona, non ho notato in lui
qualche cambiamento. Almeno in apparenza, l'umore del signor marchese era
eguale a quello degli altri giorni, salvo un po' di nervosismo dovuto
all'andata in scena di una sua opera.
VITTORIA
– Tu che sei in
confidenza con lui, al punto di firmare col tuo nome alcuni suoi scritti,
saprai certamente che la tragedia che è stata rappresentata stasera è ispirata
a un episodio che mio marito ha vissuto.
CAMERIERE
– Lo so, signora
marchesa, "Il salto di Leucade" è, almeno in parte, tratta dalla
realtà che il signor marchese ha affrontato.
VITTORIA
– Mi consola
quell'almeno in parte, perché tu sai come va a finire.
CAMERIERE
– Finisce come
tutte le tragedie, con un atto di sangue.
VITTORIA
– Con un
suicidio finisce. Se ora riflettiamo sulla realtà che può diventare teatro, è
più che lecito temere del teatro che può tornare nella realtà.
CAMERIERE
– Mi permetto di
essere in disaccordo con voi, signora marchesa. Una risoluzione del genere non
nasce all'improvviso, ma è frutto di gravi meditazioni che non possono essere
nascoste nel segreto di un animo, ma appaiono chiaramente a coloro che si
trovano nelle vicinanze.
VITTORIA
– Vuoi dire che
quella relazione non ha lasciato tracce nel marchese?
CAMERIERE
– Un episodio
superato, possiamo dire dimenticato.
VITTORIA
– Che strano!
vuoi dimostrare fedeltà a mio marito, e nello stesso tempo attenuare il mio
giusto risentimento, senza pensare che in questo modo svilisci la figura del
marchese, descrivendolo come un essere superficiale, insicuro dei propri
sentimenti.
CAMERIERE
– Se ho dato quest'impressione,
chiedo umilmente di scusarmi.
VITTORIA
– Se il fuoco di
quella relazione fosse veramente spento, mio marito non si sarebbe sentito di
ricordarlo in un lavoro teatrale.
CAMERIERE
– Al contrario,
signora marchesa, trasportare personaggi che sono esistiti nella fittizia
realtà della scena, significa rinunciare alla loro verità per trasformarli in
fantasmi.
VITTORIA
– E quando il
marchese scriveva questo lavoro, non hai notato il suo entusiasmo nel rivivere
quell'episodio?
CAMERIERE
– A giudicare
dal periodo di creazione, ci sarebbe da concludere che il marchese volesse solo
sbarazzarsi al più presto di questo ricordo. Pensate, ha scritto l'intera
tragedia in poche settimane, quando le altre opere hanno richiesto spazi di
tempo infinitamente maggiori. (Squillo di
campanello)
VITTORIA
– Ecco qualcuno
che arriva! (Luigi si precipita ad aprire
entrando nel fabbricato, ma ne ritorna subito dopo)
CAMERIERE
– E' il signor
Berardo, l'amico del marchese.
VITTORIA
– Fallo entrare
subito, può darsi che abbia qualche notizia!
(Luigi esce ed entra Berardo che va a baciare la mano di Vittoria)
BERARDO
– Come state,
Vittoria? a teatro non ho potuto avvicinarvi. Siete qui con vostro marito?
VITTORIA
– No, Berardo,
speravo di vederlo in vostra compagnia.
BERARDO
– L'ho visto
lasciare il teatro alla fine del lavoro.
VITTORIA
– Per andare
dove, non avete idea?
BERARDO
– E' nelle
abitudini di Giovanni, lo sapete, allontanarsi certe volte da tutti per
ritrovare se stesso nella solitudine e nel silenzio.
VITTORIA
– Ma non alla
prima rappresentazione di una sua tragedia, quando il pubblico applaude e gli
amici hanno voglia di felicitarsi con lui.
BERARDO
– Un
comportamento un po' strano che neppure io ho ben capito.
VITTORIA
– Forse è
l'argomento dell'opera che l'ha sconvolto. Deve fare un certo effetto vedere un
se stesso sulla scena affrontare passioni che lui ben conosce.
BERARDO
– Passioni che
non possono più causare alcun turbamento perché spente del tutto.
VITTORIA
– Ne siete ben
certo, Berardo? perché in caso contrario verrebbe subito in mente il finale
dell'opera.
BERARDO
– Non dovete
pensare neppure per un momento a un fatto del genere. Giovanni ha superato
completamente questa crisi, chiamiamola sentimentale, al punto di farne oggetto
di un lavoro teatrale. Ormai la vicenda è diventata pubblica ed è entrata nella
fase naturale di oggettivazione. Tutto è finito in modo definitivo. Non c'è più
alcun pericolo all'orizzonte.
VITTORIA
– Le vostre
parole mi fanno un gran bene, Berardo.
BERARDO
– Mi sembra il
rumore di una carrozza!
CAMERIERE
–
(entrando) E' arrivata la carrozza del
signor marchese!
VITTORIA
– Finalmente!
(Luigi esce. Rumore di voci)
GIOVANNI
–
(entra e soprassale nel vedere la moglie,
quindi si affretta a baciarle la mano) Eri qui, mia cara, se l'avessi
saputo mi sarei affrettato per evitarti l'attesa. Per fortuna c'era Berardo a
farti compagnia. Come stai, Berardo?
BERARDO
– Sto come i
molti che stasera volevano rallegrarsi con te per il successo della tragedia.
GIOVANNI
– Deluso, vuoi
dire? anche tu, Vittoria, rimproveri la mia fuga da teatro?
VITTORIA
– Avresti dovuto
agire più cautamente. Tutti sapevano che l'azione scenica riportava una vicenda
che hai veramente vissuto, e la tua ritirata ha scatenato le congetture più
disparate.
GIOVANNI
– Nemmeno tu,
Berardo, hai capito perché ho lasciato il teatro appena sono incominciati gli
applausi?
BERARDO
– No, Giovanni,
non ci sono riuscito.
GIOVANNI
– Eppure non era
difficile: il pubblico applaudiva e io sarei stato costretto a unirmi agli
attori per il ringraziamento, e io non me la sono sentita di presentarmi a
fianco di coloro che hanno trattato così male la mia opera.
BERARDO
– Ma se il
pubblico applaudiva soddisfatto!
GIOVANNI
– Che cosa ha
applaudito, l'abilità gigionesca degli interpreti, o i valori letterari del
testo? Ne abbiamo parlato altre volte, non è vero?
BERARDO
– D'accordo, non
tutti gli attori sono in grado di capire e di valorizzare le qualità principali
di un'opera, ma sanno molto bene dove appoggiarsi per strappare il consenso del
pubblico.
GIOVANNI
– Sono molto
abili, è vero. Per esempio, quando non gli arriva la voce del suggeritore,
riescono addirittura a inventarsi interi brani del lavoro, con grossi errori di
grammatica e di sintassi che il pubblico attribuisce all'autore.
BERARDO
– Non mi dirai
che anche stasera…
GIOVANNI
– E' accaduto
nel secondo atto, nel quarto e due volte nel quinto.
BERARDO
– Io non mi sono
accorto di nulla.
GIOVANNI
– Perché non
conoscevi il lavoro, altrimenti avresti capito la mia riluttanza a presentarmi
al pubblico mischiato a quegli interpreti.
BERARDO
– Diciamo allora
che il successo è arrivato nonostante queste imperfezioni. Una ragione in più
per sentirsi fieri di questo risultato.
GIOVANNI
– Grazie,
Berardo, ci volevano proprio le tue parole per attenuare il disappunto che ho
provato.Ma non parliamone più adesso. Mia moglie mi ha dato la gioia di venire
a teatro e di arrivare fino alla villa. Mi sento in dovere di ringraziarla.
VITTORIA
– Non ho
intenzione di dirti perché sono venuta qui dopo lo spettacolo, anziché fermarmi
a Verona.
GIOVANNI
– E io rispetto
il tuo silenzio che avrà certo una ragione logica.
BERARDO
– A questo
punto, cari amici, è venuto anche per me il momento di andarmene a casa.
GIOVANNI
– Allora darò
ordini per la tua carrozza. (esce)
VITTORIA
– Avevate
ragione, Berardo, a dirmi che le mie preoccupazioni erano eccessive.
BERARDO
– Conosco bene
Giovanni e so che l'episodio Martinengo è scomparso dal suo orizzonte.
Purtroppo non ho saputo interpretare la sua fuga da teatro.
GIOVANNI
–
(rientrando) La tua carrozza sarà pronta
fra un minuto.
BERARDO
– Appena il
tempo di salutare… comincerò da Vittoria… (si
avvicina alla donna e le bacia la mano)… mi ha fatto piacere vedervi
stasera.
VITTORIA
– Anche a me ha
fatto piacere, Berardo. Mi auguro che possa ripetersi presto.
BERARDO
– Addio,
Giovanni… (abbraccia l'amico)… cerca
di perdonare le manchevolezze dei tuoi interpreti, in fondo hanno portato la
tua tragedia al trionfo.
GIOVANNI
– Ho già dimenticato
tutto. Addio, Berardo. (Berardo esce;
Giovanni si avvicina a Vittoria) Avevo un gran paura che anche tu volessi
tornare a Verona.
VITTORIA
– Davvero sei
contento che io sia rimasta?
GIOVANNI
– Non riesco a
esprimere tutta la gioia che provo di averti vicino.
VITTORIA
– Non me l'hai
dimostrato spesso questo desiderio di me.
GIOVANNI
– E' vero,
Vittoria, davanti a te devo chinare il capo. E' impossibile che tu dimentichi
la slealtà che ti ho dimostrato.
VITTORIA
– Perché
slealtà? non mi hai mai promesso di amarmi. Il nostro matrimonio è stato un
atto di reciproca convenienza: tu aspiravi a entrare nel Gran Consiglio a
Venezia, e sposandomi ci sei riuscito. Io, per mio conto, ambivo a imparentarmi
con la tua famiglia.
GIOVANNI
– E ti è
bastato? Non hai pensato che, sposandomi, avresti avuto altri diritti?
VITTORIA
– La tua
fedeltà, forse? io conoscevo bene il tuo passato incostante e avventuroso,
potevo pretendere di mutare il tuo carattere e di violentare la tua natura di
artista?
GIOVANNI
– La tua
indulgenza mi lascia senza fiato. Sapevo della grande libertà che mi accordavi:
ricordo le lettere che mi spedivi a Venezia, durante il carnevale, non c'era la
più pallida traccia di gelosia, quando ti raccontavo dei veglioni ai quali
partecipavo.
VITTORIA
– Ero capace di
nascondere bene la mia amarezza.
GIOVANNI
– E io che ti
credevo indifferente! Perdonami, cara, per le sofferenze che ti ho causato.
VITTORIA
– Vere
sofferenze me l'hai procurate soltanto due volte: la prima all'epoca della
Contarini, e la seconda quand'è accaduto il fatto Martinengo.
GIOVANNI
– Due episodi
completamente scomparsi dalla mia vita, come se non fossero mai accaduti.
VITTORIA
– Davvero non
c'è altro che è rimasto dentro di te?
GIOVANNI
– No, Vittoria,
poche avventure sbiadite che non riesco neppure a ricordare bene. E pensare che
sarebbe bastata una tua parola per cancellarle del tutto al loro nascere.
VITTORIA
– Sarebbe stato
contro la mia natura, un'invadenza che forse neppure tu avresti gradito.
GIOVANNI
– Non riesco a
immaginarmela; io ti ho visto sempre come appartenente a una sfera superiore,
lontana dalle meschinità della vita: una splendida figura circondata da una
grande forza morale.
VITTORIA
– Hai detto
splendida?
GIOVANNI
– Ti stupisci
che ti trovi affascinante?
VITTORIA
– Non me
l'aspettavo. Perché mi hai trascurato, allora?
GIOVANNI
– Mi sapevo
colpevole per le offese che ti avevo recato e non me la sentivo di pretendere
diritti che non avevo meritato.
VITTORIA
– Eppure ti ho
dato due figli.
GIOVANNI
– Pensavo che
con quelli tu avessi esaurito i tuoi doveri coniugali.
VITTORIA
– Perché non ci
siamo mai parlati come stasera? Avremmo evitato sospetti e incomprensioni.
GIOVANNI
– Ma è sempre
possibile incominciare di nuovo, vero?
VITTORIA
– Sì, Giovanni,
è possibile. Basta volerlo.
GIOVANNI
– Sei stata tu a
dare il nuovo avvio a questa nostra avventura.
VITTORIA
– Io, dici?
GIOVANNI
– Sì, è stato
quando hai deciso di non tornare a Verona stasera, ma di restare con me.
VITTORIA
– Avevo pensato
di averti perduto per sempre, e quell’idea mi aveva riempito d’orrore.
GIOVANNI
– Perduto,
perché?
VITTORIA
– Affascinato
dalla soluzione de “Il salto di Leucade”.
GIOVANNI
– Avrei dovuto
trovarmi nella condizione di Eacide, sconvolto da una passione insopprimibile e
irresistibile. Mi vedi in quello stato?
VITTORIA
– Adesso direi
proprio di no.
GIOVANNI
– Vedi
l’importanza di parlare per conoscerci a fondo?
VITTORIA
– Non ci saranno
più silenzi fra noi.
GIOVANNI
– Per noi è
incominciata una nuova, meravigliosa avventura.
VITTORIA
– E durerà a
lungo?
GIOVANNI
– Fin quando
avrai per me comprensione e affetto.
VITTORIA
– Allora
possiamo dire: per sempre.
GIOVANNI
– (abbraccia
la moglie) Cara Vittoria, ti ho ritrovato, finalmente!
(chiamando) Luigi!... presto, Luigi!...
(appare il cameriere)… dài ordine di far staccare i cavalli dalla
carrozza della marchesa… mia moglie non torna a Verona, ma resta in villa con
me!
CAMERIERE
– Provvederò
subito. (fa per uscire)
GIOVANNI
– Aspetta!... dài un’occhiata alla camera
perché tutto sia a posto. Provvedi anche per una cenetta per due...
(alla moglie)… faremo uno spuntino alle
prime luci dell’alba… (al cameriere)…
c’è dello champagne in ghiaccio?
CAMERIERE
– Sì, signor
marchese.
GIOVANNI
– Tiralo fuori,
allora… (il cameriere esce)… il
nostro nuovo incontro va festeggiato come si deve...
(abbraccia la moglie)… cara Vittoria… avevo la felicità a portata
di mano e non osavo afferrarla… cara, cara Vittoria!...
SECONDA
PARTE
IV°
QUADRO
(Villa
di Giovanni, Rumore di una carrozza che si ferma, suono di campanello, poi
Ippolito Pindemonte entra seguito da Luigi.)
IPPOLITO
– E’ in villa
mio fratello?
CAMERIERE
– Sì, signore,
sta ancora dormendo.
IPPOLITO
– Bisognerà
svegliarlo, allora.
CAMERIERE
– Mi permetto di
farvi presente che il marchese stanotte è rientrato molto tardi.
IPPOLITO
– Non fa niente,
vai subito a svegliarlo.
CAMERIERE
– Come
desiderate. (esce. Ippolito si muove
osservando il giardino. Entra Giovanni in abito da notte: è stato visibilmente
strappato al sonno. Dietro di lui viene Luigi)
GIOVANNI
– Ippolito!...
(va ad abbracciarlo)… perdona
quest’accoglienza così poco rispettosa, ma ero letteralmente immerso nel sonno.
Luigi! portaci subito due buoni caffè. (Luigi
esce)
IPPOLITO
– Sei tu che
devi scusarmi per questa visita improvvisa. Ma non potevo fare altrimenti.
Stanotte è venuto da me Sarfatti, come sempre informato sulle decisioni del
Gran Consiglio.
GIOVANNI
– Non l’ho mai
incontrato, ma ho già sentito il suo nome.
IPPOLITO
– Questo
Sarfatti che mi deve della riconoscenza, ha pensato bene di informarmi di una
disposizione che sta per essere emanata: si tratta di…
(s’interrompe per l’entrata di Luigi con i caffè)
GIOVANNI
– Puoi parlare
liberamente: Luigi è persona fidata e devota.
IPPOLITO
– Scusatemi.
Stavo dicendo, dunque, che il Gran Consiglio di Venezia sta per emanare un
decreto di arresto contro di te.
GIOVANNI
– E per quale
ragione?!
IPPOLITO
– Pubblico
atteggiamento antigovernativo, sostenitore e propagandista di idee
rivoluzionarie, assiduo frequentatore di ambienti devoti alla causa liberale.
GIOVANNI
– Si tratta di
inutili chiacchiere che non forniscono un briciolo di prova di una qualsivoglia
azione contro lo stato.
IPPOLITO
– Ne sono
pienamente consapevole. E’ chiaro che si tratta di una vendetta: hanno voluto
vendicarsi dei versi che tu hai loro dedicato:
“Ahimè che fra
viltà miserie e inganni
veggo sol
vegetar con giro alterno
schiavi
tranquilli e timidi tiranni.“
Ricordi?
GIOVANNI
– Certo che
ricordo, era una critica innocente, avanzata per il bene dello stato. Che cosa
non è mai diventato questo paese dove si perseguitano i pensieri di chi opera
per una maggiore giustizia! Mi si vieterebbe di frequentare case e locali dove
posso incontrare vecchi amici affezionati e fedeli. E’ un sopruso
inconcepibile!
IPPOLITO
– Lo so,
Giovanni, è una feroce ingiustizia che non possiamo accettare. Lotteremo con
forza contro questo sopruso, ci appelleremo alle personalità di governo che
potranno aiutarti. Sarfatti mi ha detto che la sentenza non è stata votata
all’unanimità, ma a maggioranza ristretta. Ora però la cosa più importante da
fare è impedire l’esecuzione dei loro piani. Per questo sono qui.
GIOVANNI
– Sono commosso,
mio caro Ippolito. Tu che offri aiuto al fratello maggiore! Le cose del mondo
sono veramente sconvolte.
IPPOLITO
– Non pensare a
queste sciocchezze, offre aiuto chi si trova con i piedi meglio piantati per
terra. Non vorrai cadere nelle mani degli inquisitori di stato di Venezia,
vero? E’ un pezzo che le loro spie ti tengono d’occhio. E’ incominciato nel
1788.
GIOVANNI
– Ero podestà di
Vicenza allora.
IPPOLITO
– Evidentemente
le tue idee liberali facevano paura.
GIOVANNI
– E ora, finalmente, hanno trovato il
coraggio di agire.
IPPOLITO
– Stanno venendo ad arrestarti,
Giovanni. Non abbiamo che poche ore di vantaggio su loro.
GIOVANNI
– E’ difficile stabilire… così
all’improvviso…
IPPOLITO
– Devi farlo senza perdere tempo. Devi
andartene immediatamente.
GIOVANNI
– Facile dire andartene… ma dove andare?
IPPOLITO
– Ti porterò a Parigi con me, vuoi?
GIOVANNI
– Certo che voglio, fratellino caro.
(chiamando, e poi a Luigi che accorre) Luigi…
presto!... preparami subito la borsa da viaggio… mettici dentro l’occorrente
per alcuni giorni…
CAMERIERE
– Bene, signor marchese.
(esce)
IPPOLITO
– La Francia è un rifugio sicuro. A
nessuno là verrebbe in mente di perseguitarti per le tue idee. In ogni modo, ti
presenterò ai miei amici che la pensano tutti come te.
GIOVANNI
– Sono ansioso di conoscerli… Luigi, è
pronta la mia borsa?!... bastano poche cose indispensabili per i primi giorni…
il resto me lo spedirai in seguito… ogni minuto che passa ora ha una lunghezza
insopportabile. Andremo con la tua vettura o con la mia?
IPPOLITO
– Meglio la mia, è più sicura. La tua
l’invierai in rimessa per qualche riparazione, in modo che non venga trovata
alla villa. Gli sbirri, magari, per metterti le mani addosso, aspetteranno che
tu vada a ritirarla.
GIOVANNI
– Vado subito a cambiarmi. Non vedo
l’ora di essere lontano, fuori dalle sgrinfie degli inquisitori di Venezia!
V°
QUADRO
(Interno
locanda a Parigi. Una saletta)
VOCE DI IPPOLITO
– Les bagages de
mon frère aîné au deuxieme étage, s’il vous plaît… bien, merci... (entra
Ippolito che precede Giovanni)
IPPOLITO
– Vedrai che qui
ti troverai bene. L’aspetto è modesto, ma il trattamento non lascia a
desiderare.
GIOVANNI
– Non mi
aspettavo davvero qualcosa di più.
IPPOLITO
– E poi qui sono
alloggiati diversi amici miei che certamente fra poco diventeranno anche tuoi.
GIOVANNI
– Ti sarò
riconoscente a lungo, caro Ippolito. (entra
un uomo di mezza età)
IPPOLITO
– Toh, ecco che
arriva Durand... (corre ad abbracciarlo)…
come stai, Robert?
DURAND
– Di nuovo a
Parigi, quando sei arrivato?
IPPOLITO
– Appena sceso
dalla carrozza con mio fratello Giovanni… (Robert
e Giovanni si stringono la mano; al fratello)… questo è Robert Durand,
amico carissimo e poeta raffinato… avrai modo nei prossimi giorni di conoscere
la sua cultura e la sua intelligenza.
DURAND
– Ippolito mi ha
parlato a lungo di te, delle tue tragedie specialmente.
GIOVANNI
– Scrivo lavori
per il teatro, ma non so se siano proprio tragedie. Quando mi deciderò a
pubblicarle, le chiamerò componimenti teatrali.
DURAND
– Approvato in
pieno! Voi in Italia avete già un grande trageda: Vittorio Alfieri, come noi
abbiamo avuto Corneille e Racine. Bisogna andare avanti e non avere paura del
nuovo, ma del passato se mai, e specialmente dei paragoni che a qualcuno può
venire in mente di fare.
GIOVANNI
– Sono
perfettamente d’accordo con te.
DURAND
– Avremo modo di
parlarne insieme… (a Ippolito)... si
fermerà un po’ fra noi tuo fratello?
IPPOLITO
– Direi di sì… non
sappiamo ancora bene per quanto, poiché non dipende da noi… ma si tratterà di
un tempo abbastanza lungo.
DURAND
– Ho capito
tutto. Benvenuto alla libertà, Giovanni!
GIOVANNI
– Grazie di
cuore, Robert!
JANNETTE
– (entrando;
a Ippolito) Tiens, c’est vous!? Encore parisien?
IPPOLITO
– Jannette ma chérie, come stai? je sois
içi avèc mon frère. (si abbracciano;
entra un giovane – Paul – e Durand l’affronta)
DURAND
– Vieni dalla
Convenzione?
PAUL
– Sì.
DURAND
– Hanno sospeso
i lavori?
PAUL
– Una breve
sospensione, riprenderanno fra poco.
DURAND
– E’ stato
deciso qualcosa stamani?
PAUL
– S’è discusso
sulla nomina di un direttorio di cinque membri rinnovabili ogni anno.
DURAND
– E chi li
sceglierebbe quei membri?
PAUL
– Questo resta
da decidere.
DURAND
– Ma è la cosa
più importante!
PAUL
– Vuoi che non
lo sappia? È il punto su cui daremo battaglia.
(si avvicina Giovanni)
DURAND
– Tu non conosci
ancora il fratello di Ippolito… Giovanni.
PAUL
– (stringendogli
la mano) Molto piacere. Io sono Paul Marton.
(si avvicina Ippolito)
IPPOLITO
– Vedo che vi
siete già conosciuti.
PAUL
– Che fai di
nuovo a Parigi?
GOVANNI
– E’ venuto ad
accompagnare me.
DURAND
– Si dà il caso
che il nostro nuovo amico sia poco simpatico agli sbirri di casa sua.
PAUL
– Una
raccomandazione speciale per aprirgli le braccia.
(risate; Jannette si avvicina a Giovanni e lo tira da parte)
JANNETTE
– E questo
sarebbe, dunque, il marchesino Giovanni?
GIOVANNI
– Sono proprio
io, signorina.
JANNETTE
– Non chiamarmi
con quel brutto nome, il mio è Jannette.
GIOVANNI
– Mi sembrava
eccessivamente confidenziale chiamarti per nome: non ti avevo ancora
conosciuto.
JANNETTE
– Io invece ti
conoscevo da tempo: tuo fratello parlava spesso di te e adesso mi sento di
considerarti come un vecchio amico… un vieux ami.
GIOVANNI
– Ippolito è un
fratello affettuoso al quale sono molto riconoscente.
JANNETTE
– E’ un uomo innamorato
dei viaggi e della propria famiglia. Non fa che parlare della moglie che ama
teneramente. Anche tu non puoi stare lontano da tua moglie?
GIOVANNI
– Io sono
abituato a starle lontano. Il nostro è un legame fatto di stima e di rispetto,
non di sospetti e di gelosie.
JANNETTE
– Ma che cosa mi
dici, mon chéri? Tu non hai mai tradito tua moglie?
GIOVANNI
– Tradimento nel
significato preciso del termine, no. E credo che non lo farò mai.
JANNETTE
– Uh! ma guarda
che cos’hanno inventato questi uomini birichini: le trompeur senza senso di
colpa.
GIOVANNI
– Ti sembra
tanto strano?
JANNETTE
– Mais non,
chéri, lo trovo meraviglioso. E’ una trovata degna di un autore di teatro come
te.
GIOVANNI
– Ippolito ti ha
detto proprio tutto di me.
JANNETTE
– Mi ha detto
che le tue tragedie sono charmantes e che vengono molto applaudite dal
pubblico. Come mi piacerebbe vederne una!
GIOVANNI
– Purtroppo
questo non è possibile perché non sono state tradotte in francese.
JANNETTE
– Ma io mi accontenterei di sentirle recitate in italiano.
GIOVANNI
– Dovresti
venire in Italia quando ce n’è qualcuna in scena.
JANNETTE
–
E non potresti accompagnarmi tu in
quella occasione?
GIOVANNI
– Perché no?...
si può fare, certo… bisogna però che prima vadano a posto le faccende che mi
hanno costretto a venire qui.
JANNETTE
– Già! Non
ricordavo che questo è ton refuge. Ma io aspetterò che tutto passi e finalmente
tu mi possa accompagnare nel tuo bellissimo paese. Non dimenticherai la
promessa, mio bel marchesino?
GIOVANNI
– Non dimentico mai le promesse che
faccio alle belle donne.
JANNETTE
– C’est
merveilleux mon chèr, e très galant.
PAUL
– (intervenendo
bruscamente) Che si dice in Italia del generale Bonaparte?
GIOVANNI
– E’ nemico
degli austriaci e questo è un buon segno.
DURAND
– (avvicinandosi)
Ha promesso l’indipendenza alla Lombardia e all’Emilia.
GIOVANNI
– Finora
sembrava che gli stesse a cuore soltanto la Corsica.
PAUL
– Corre voce che
verrà nominato comandante dell’Armata d’Italia.
DURAND
– Io ho grande
fiducia in lui: è un uomo destinato a grandi imprese.
GIOVANNI
– Speriamo che
riesca a controllare le proprie ambizioni.
DURAND
– Bonaparte è un
uomo eccezionale che non può essere giudicato con un metro comune.
PAUL
– (a
Ippolito che intanto s’è avvicinato) Ti vedo perplesso, Hai anche tu delle
riserve su Bonaparte?
IPPOLITO
– Le mie riserve
riguardano i militari di qualunque paese quando, anziché di guerra, si occupano
di politica.
DURAND
– La
sistemazione dei rapporti fra gli stati in Europa, la pace in altri termini,
non può essere raggiunta dai civili, ma solo dai militari.
IPPOLITO
– Per questo ho
così poca fiducia di arrivare alla pace.
JANNETTE
– Je suis
complétement d’accord avec Ippolito. Lui ama la calma della natura, la
tranquillità de l’étude, la caresse de sa femme. Pourquois dovrebbe pensare
alla violenza?
PAUL
– Non era di
questo parere quando passeggiava con Vittorio Alfieri sulle ceneri della
Bastiglia.
IPPOLITO
– Era quando
Alfieri cercava ispirazione per il suo poemetto: “Parigi sbastigliata”. E poi
allora chi era contrario alla Rivoluzione? Sono stati i suoi eccessi a
raffreddare i miei entusiasmi, quelli dell’Alfieri e di gran parte di noi.
DURAND
– La Rivoluzione
Francese non deve essere giudicata dai suoi eccessi, ma dagli equilibri che ha
saputo creare fra gli uomini.
GIOVANNI
– La politica
dei giacobini non si può definire equilibrata.
DURAND
– Che cosa ti ha
costretto a rifugiarti i Francia, la politica dei giacobini o la persecuzione
alla libertà di pensiero?
GIOVANNI
– Penso sia stata
la paura del giacobinismo che anche da noi viene avanti a lunghi passi.
DURAND
– E allora non
ci resta che gridare: viva il giacobinismo!
PAUL
– Evviva!
(Paul e Giovanni si abbracciano)
(Salto
temporale. La stessa saletta della locanda a Parigi. Al centro della stanza due
valigie e una borsa. Entra Giovanni in abito da viaggio precedendo un
facchino.)
GIOVANNI
– Ci sono anche
queste due valigie da caricare… no, la borsa la porto io.
(il facchino esce con le valigie e Giovanni sta per seguirlo, ma sulla
porta incontra Jannette che sta entrando)
JANNETTE
– Giovanni!...
ma tu stai partendo?!... e senza dirmi nulla!...
GIOVANNI
– Ti ho lasciato
una lettera in camera tua.
JANNETTE
– Ah, una
lettera! Hai compiuto beaucoup d’éfforts, mon chèr.
GIOVANNI
– Tu eri via da
Parigi…
JANNETTE
– Ero andata in
Normandie, près de ma mère, lo sapevi.
GIOVANNI
– Ma non sapevo
quando saresti tornata e io non potevo aspettare il tuo ritorno.
JANNETTE
– Avevi così hâte?
GIOVANNI
– Non io, ma la
Repubblica Cisalpina ha fretta di iniziare i suoi lavori. E io sono stato
eletto deputato per il dipartimento del Mincio.
JANNETTE
– Torni a
casa,dunque, la persecuzione politica è finita?
GIOVANNI
– Vorrei ben
vedere, ora che sono stato eletto deputato!
JANNETTE
– Non ricordi
più la promessa che mi hai fatto?
GIOVANNI
– Non posso
rispettarla adesso. Devo raggiungere Milano per trasferirmi a Lione dove hanno
luogo i Comizi.
JANNETTE
– E tutto questo
senza neanche un pétit saut a Verona?
GIOVANNI
– Non è
possibile, ho i giorni contati.
JANNETTE
– Perché questa
mensonge?
GIOVANNI
– Nessuna bugia:
è la verità.
JANNETTE
– A Verona on
représent ta “Ginevra di Scozia” e tu non approfitti per un pétit saut?
GIOVANNI
– Ho i giorni
contati, te l’ho già detto. E poi “Ginevra di Scozia” l’ho scritta cinque anni
fa e l’ho già vista in scena diverse volte.
JANNETTE
– Ma io non l’ho
vista e tu mi avevi promesso de m’accompaigner en Italie.
GIOVANNI
– Sarà in
un’altra occasione, ora non è proprio possibile. E poi non dimenticare che Verona
è la mia città… tutti mi conoscono, e là c’è anche mia moglie.
JANNETTE
– Non vuoi farti
vedere con la tua cocotte, vero?
GIOVANI
– Non è questo,
solo non mi sembrerebbe di buon gusto.
JANNETTE
– Mi hai sempre
detto che ta femme non è gelosa.
GIOVANNI
– Sì, ma questa
sarebbe una provocazione.
JANNETTE
– Che debba
essere io a sopportarla n’importe pas, vero?
GIOVANNI
– Non è questo
il modo giusto per affrontare la questione.
JANNETTE
– Insegnamelo
tu, alors, qual è questo modo giusto.
GIOVANNI
– (raccogliendo
la borsa) Non c’è tempo adesso… la carrozza è pronta e io devo andare.
JANNETTE
– Rispondimi
invece de t’enfuir.
GIOVANNI
– Io non fuggo.
Ti ho spiegato che devo raggiungere Milano al più presto: faccio parte del
Consiglio e la Repubblica Cisalpina è troppo importante per il mio paese perché
io la trascuri.
JANNETTE
– Una sola cosa
dovresti m’expliquer, perché non rispetti le tue promesse. Forse perché la
parola data a una garçe non ha valore?
GIOVANNI
– Chi ti ha
detto che io ti consideri una garçe?
JANNETTE
– Hai vergogna a
farti vedere in mia compagnia. Quello che va bene a Parigi il n’est pas bon en
Italie.
GIOVANNI
– Non posso
mantenere la mia promessa perché devo partire.
JANNETTE
– Ma io saprò me
venger, ricordatelo.
GIOVANNI
– Non ho paura
della tua vendetta. Devo partire. Addio.
V°
QUADRO
(Sala
di locanda a Milano. Berardo è in scena visibilmente turbato e va incontro al
locandiere che entra.)
BERARDO
– Allora,
l’avete svegliato?
LOCANDIERE
– Appena ha
saputo che eravate qui, il signor marchese s’è buttato subito giù dal letto.
BERARDO
– Ma gli avete
detto di far presto perché è molto importante?
LOCANDIERE
– Mi ha risposto
che basta la vostra presenza per sollecitarlo al massimo. Mi ha anche ordinato
di servirvi un caffè e di prepararne uno anche per lui.
BERARDO
– Tornate da
lui, vi prego e ditegli di venire qui immediatamente.
LOCANDIERE
– Vado subito,
signore. (il locandiere esce ed entra
Giovanni)
GIOVANNI
– Che piacere
vederti, Berardo! Perdonami per questi minuti che hai dovuto aspettare: io ho
fatto più presto che potevo. ero ansioso di sapere qualche notizia di Verona.
BERARDO
– Non c’è tempo
per la risposta: devi uscire subito di qui, stanno venendo ad arrestarti!
GIOVANNI
– Ancora gli
inquisitori di Venezia? Non possono niente contro di me adesso: sono un
rappresentante della Repubblica Cisalpina!
BERARDO
– Non più,
Giovanni, la tua nomina è stata sospesa.
GIOVANNI
– Cosa dici mai,
Berardo?!
BERARDO
– La verità! è
una notizia riservata che ho appena ricevuto.
GIOVANNI
– E da chi l’hai
ricevuta?
BERARDO
– Non pensare a
questo, ma a metterti in salvo.
GIOVANNI
– Chi ha sospeso
la mia nomina e perché?!
BERARDO
– La congiura
del Ceracchi. Ne hai sentito parlare, no?
GIOVANNI
– Da lì
partirebbe l’accusa?! Ma io il Ceracchi non l’ho mai visto in faccia. Conosco
purtroppo le sue brutte sculture e basta!
BERARDO
– Sono cose che
dirai a tua difesa, ora devi sfuggire all’arresto: non c’è da perdere neppure
un minuto.
GIOVANNI
– Io accusato di
partecipare a una congiura contro Napoleone Bonaparte, l’uomo che ha creato la
Repubblica Cisalpina, che ha dato la libertà all’Alta Italia, in attesa di
darla a tutto il paese!
BERARDO
– Potrai
difenderti meglio da uomo libero.
GIOVANNI
– Ma io non
sopporto di essere sospettato neppure per un istante!
BERARDO
– Vuoi farti
arrestare?!
GIOVANNI
– Voglio sapere
su quali basi si fonda quest’accusa.
BERARDO
– Su alcuni tuoi
scritti che sono stati consegnati alla polizia francese da una donna, una certa
Jannette…
GIOVANNI
– Quella vipera!
BERARDO
–… su quelle
carte sarà fondato il processo.
GIOVANNI
– Sono appunti
di una nuova tragedia che ho intenzione di scrivere: “Cincinnato”… ora capisco:
la polizia francese pensa che io voglia alludere a Napoleone, esaltando l’eroico
generale romano che dopo aver dato tanto alla patria, per sé non ha voluto
nulla e, rifiutando onori e trionfi, s’è dedicato al lavoro nel suo podere,
mentre Napoleone… ma io non volevo fare nessuna allusione: io apprezzo
Napoleone che è un amico dell’Italia. Mi provino il contrario!
BERARDO
– Ora però devi
pensare a fuggire… ascoltami Giovanni, devi metterti in salvo!...
(fa un passo fuori scena e rientra subito)…
no, è troppo tardi: c’è già il carrozzone della polizia qui davanti!
GIOVANNI
– Meglio così!
Non mi andava di dover fuggire come un malfattore.
(Salto
temporale. Ancora la locanda di Milano. Sono in scena Giovanni e Berardo.)
BERARDO
– Evviva!
l’assoluzione è arrivata! (abbraccia
Giovanni)
GIOVANNI
– Solo per
insufficienza di prove, non per non aver commesso il fatto.
BERARDO
– Non potevano
fare di più: in fin dei conti gli appunti per il “Cincinnato” esistono e ognuno
può leggerci dentro quello che gli pare.
GIOVANNI
– Non sono più
appunti ormai, in prigione ho lavorato parecchio e il “Cincinnato” è quasi
pronto per la scena. Purtroppo per il momento ho dovuto abbandonarlo.
BERARDO
– E perché?
GIOVANNI
– Sono stato nominato membro del Corpo
legislativo ed elettore per gli antichi dipartimenti.
BERARDO
– Non vogliono
lasciarti abbandonare la politica attiva, dunque?
GIOVANNI
– Non vogliono
lasciarmi in pace, soprattutto.
BERARDO
– Non sei fiero
per i nuovi incarichi ricevuti?
GIOVANNI
– Sono costretto
a restare a Milano, quando speravo di tornare nella nostra Verona.
(entra il locandiere con una bottiglia di
champagne e i bicchieri)
BERARDO
– C’è ancora
bisogno di te. E’ una nuova opportunità di fare del bene per il nostro paese.
GIOVANNI
–
Proprio per questo ho accettato, anche
se a malincuore.
BERARDO
– Volevo brindare alla tua assoluzione,
ma la tua nuova nomina è più importante e ci fornisce una ragione in più per
stappare la bottiglia (il locandiere fa
saltare il tappo e riempie i bicchieri) Faccio voti perché tu possa
esaurire rapidamente i tuoi compiti e tornartene a casa.
GIOVANNI
– Grazie
dell’augurio. Sono stanco di incarichi governativi, di dover battagliare nelle
commissioni e nelle assemblee contro contrasti di ogni natura. Sogno di
riposarmi finalmente nella mia villa di Verona, di assaporare i piaceri della
campagna e della famiglia, di dedicarmi completamente alla mia poesia e al mio
teatro. Invidio mio fratello che ha incominciato a tradurre “L’Odissea” e che
in questo momento si trova in compagnia del grande Omero.
(il locandiere esce)
BERARDO
– Sei ben sicuro
che questa sia la vita che desideri? Io ti conosco bene e mi sento di avanzare
parecchi dubbi. Non potrai rinunciare facilmente alla tua partecipazione. Sì,
la situazione politica potrebbe apparire favorevole a un ritiro...
GIOVANNI
– Napoleone sta
sbaragliando gli austriaci in tutta Europa!
BERARDO
– … ma Venezia è ancora nelle loro mani,
l’ha decretato il trattato di Campoformio. Potremo mai accettarlo?
GIOVANNI
– No, Berardo,
io sarò sempre il primo a ribellarmi contro questa infamia, ma a condizionare
la nostra volontà ci sono le forze fisiche. Non vorrei proprio che queste incominciassero
a mancarmi.
BERARDO
– Non temere,
Giovanni, questo tempo è ancora lontano e, in ogni modo, anche privo di vigore
fisico, ti resterebbe sempre la forza dello spirito da impegnare nelle lotte
che hai sempre combattuto. (brindano e
bevono)
VI°
QUADRO
(La
villa di Giovanni. Entrano Ippolito e Luigi.)
CAMERIERE
– Il signor
marchese riposa e non credo sia il caso di avvertirlo della vostra visita.
IPPOLITO
– Non lo è in nessun caso. Se mio
fratello riposa è sacrosanto dovere di non disturbarlo. Com’è andata negli
ultimi giorni?
CAMERIERE
– Peggioramenti
non ce ne sono stati, ma purtroppo neppure miglioramenti.
IPPOLITO
– E il medico
che cosa dice?
CAMERIERE
– Meglio dire i medici,
perché non più tardi di ieri erano in tre intorno al letto del signor marchese.
Tutti e tre si sono trovati d’accordo nel confermare le cure precedenti nel
riposo assoluto.
IPPOLITO
– Che cosa
preoccupa specialmente nel suo stato di salute?
CAMERIERE
– L’assenza di
appetito che in certi giorni diventa addirittura assoluta, rendendo impossibile
qualunque accorgimento per cercare di introdurre un po’ di cibo nel suo
stomaco. Di conseguenza si verifica una preoccupante debolezza per tutto il
corpo. Pensate che non se la sente più di leggere un solo rigo. Sono io che
devo farlo per lui.
IPPOLITO
– E la moglie, e
i suoi figli?
CAMERIERE
– La signora
marchesa è sempre qui. Soltanto oggi ha dovuto assentarsi per correre da sua
madre che è in cattive condizioni di salute. In quanto ai figli, il marchese
non vuole che interrompano i loro studi neppure per poche ore.
IPPOLITO
– Mi sembra
giusto, qui non potrebbero aiutarlo. (suono
di campanello)
CAMERIERE
– Questo è il
marchese. Vorrà certamente prendere in po’ d’aria e devo andare da lui. Ho una
preghiera da farvi: non lasciategli capire che siete venuto qui per informarvi
delle sue condizioni.
IPPOLITO
– Dirò che ero
in giro per affari e che ho pensato di fermarmi per un saluto.
CAMERIERE
– Così credo che
vada bene. (nuova rabbioso squillo di
campanello) Bisogna che vada per non farlo impazientire.
(esce e rientra poco dopo sorreggendo
Giovanni)
GIOVANNI
– E non mi stare
addosso per aiutarmi a camminare! posso farlo da solo.
IPPOLITO
– (va
ad abbracciare il fratello) Caro Giovanni, come stai?
GIOVANNI
– Sei qui per
assistere alla mia dipartita?
IPPOLITO
– Che cosa dici
mai, Giovanni? Sono stato a Venezia per un affare e, al ritorno, ho pensato di
farti una visitina.
GIOVANNI
– E hai fatto
bene. Vederti è una grande consolazione per me. Scusami se non posso
dimostrartelo come vorrei. (Ippolito
l’accompagna con Luigi a una poltroncina)
GIOVANNI
– (a
Luigi) Non c’è bisogno di trattenermi, non sono un sacco di patate!
CAMERIERE
– Semplice
precauzione, signor marchese.
IPPOLITO
– Io mi metto
accanto a te.
GIOVANNI
– Come va la
traduzione de “L’Odissea”?
IPPOLITO
– Vado avanti un
po’ lentamente, per paura di perdere qualche significato nascosto in una
parola.
GIOVANNI
– Tradurre è più
impegnativo del comporre. Ne so anch’io qualcosa per avere tradotto “Rimedi
d’amore” di Ovidio. C’è la responsabilità di tradire l’opera di un altro.
Quella che hai scritto tu, invece, puoi maltrattarla come vuoi.
IPPOLITO
– Per non
parlare della quasi impossibilità di tradurre un’opera di poesia.
GIOVANNI
– Allora posso
dirmi fortunato. Mi hanno detto che un mio lavoro teatrale, tradotto in
francese, è stato accolto con successo. Va bene che, nel mio teatro, a parere
di molti, di buona poesia ce n’è poca.
IPPOLITO
– Poca poesia
ampollosa e paludata, questo sì, quella che spesso si trova in certi poemi di
nostri contemporanei, e forse anche nei miei. Ma la poesia che occorre sulla
scena per descrivere personaggi e vicende attraverso il dialogo, quella non
manca davero.
GIOVANNI
– E’ una critica
sincera o l’omaggio di un fratello affettuoso?
IPPOLITO
– E’ la
sacrosanta verità.
GIOVANNI
– E’ un giudizio
che mi fa piacere. Ho dedicato tutta la vita a cercare un modo nuovo di far
teatro in Italia, perché ho sempre pensato che il rinnovamento debba partire
dal testo scritto. Ma mi hanno accusato di avvilire il coturno.
IPPOLITO
– Invidie e
gelosie da non prendere in considerazione.
GIOVANNI
– Oppure giudizi
affrettati di chi non conosce bene il teatro e non sa nulla di quello che
occorre per interessare una platea di spettatori.
IPPOLITO
– Ecco quello
che ci vuole: l’attenzione del pubblico. Hai scritto dodici o tredici opere
replicate più volte e applaudite in tutti i teatri italiani. Un successo che a
volte è mancato agli autori più famosi.
GIOVANNI
– Persino i
lavori del grande Alfieri vengono spesso accolti freddamente da un pubblico
annoiato. Dovrei forse concludere di essere più bravo di lui?
IPPOLITO
– No perché la
stessa accoglienza è stata spesso riservata anche ai grandissimi Racine e
Corneille. Colpa della ignoranza degli spettatori o della scarsità degli
attori, oppure della deficienza della traduzione?
GIOVANNI
– Certo, tutte e
tre queste ragioni hanno contribuito. Per quanto riguarda il successo dei miei
lavori, c’è chi ha detto che io ho adoperato una speciale malizia teatrale che
piace al pubblico. E’ forse un delitto, dove è possibile, fare a meno di
inutili prolissità per cercare la naturalezza di intrecci e contrasti?
IPPOLITO
– C’è un’altra
dote nei tuoi lavori che affascina il pubblico: la passione civile e politica
che contengono e la lezione morale che ne deriva. Gli spettatori partecipano
alle azioni che vedono rappresentate, soffrono ed esultano con i protagonisti.
GIOVANNI
– E’ quello che
ho sempre cercato. Ma sono veramente riuscito a trovarlo? Gli applausi non sono
sufficienti a dimostrarlo.
IPPOLITO
– Che cosa vuoi
di più, il parere dei letterati? Non ti bastano i giudizi favorevoli di Ugo
Foscolo, di Silvio Pellico, e persino di Stendhal, anche se non vuoi tener
conto dei miei perché sono tuo fratello? Esaminiamo le tue opere: fin dalla
prima tragedia che hai scritto sulla storia patria veronese, “Mastino I° della
Scala”, hai disegnato un esemplare figura di reggitor di città che rifiuta di farsi
tiranno, ma governa con bontà difendendo la libertà dei cittadini. Nella
seconda: “I baccanali di Roma”, hai descritto i riti orgiastici e superstiziosi
che servivano a coprire gli intrighi e gli omicidi consumati nell’antica Roma,
con chiaro riferimento ai moderni cerimoniali massonici. La terza, “I coloni di
Candia”, racconta dell’antica rivolta di alcuni ambiziosi veneziani alleati con
i ribelli candioti. Il Consiglio decise di fare sospendere il lavoro dopo solo
cinque rappresentazioni per i tumulti scoppiati fra il pubblico. Seguono
“Adelina e Roberto”, violento atto di accusa contro l’inquisizione spagnola
nelle Fiandre, pubblicazione vietata dal governo del Lombardo Veneto per non
turbare le buone relazioni con il papa. Proprio come fece più tardi con altro.
dramma che difendeva ideali democratici e repubblicani. "Donna Caritea
regina di Spagna" afferma i diritti della femminilità contro i matrimoni
per ragioni di stato. C’è poi l’inno appassionato all’amore che si eleva da
“Ginevra di Scozia” e da “Elena e Gerardo”, per arrivare alle vibranti
esortazioni di Obelerio nell’''Orso Ipato'' per esaltare la libertà di tutti i
popoli.
GIOVANNI
– Sono parole
generose le tue, caro Ippolito.
IPPOLITO
– Sono
soprattutto sincere.
GIOVANNI
– Grazie di
cuore. Ho la sensazione adesso di non avere sprecato la mia vita, ma di avere
indicato alcuni valori da seguire e proteggere per l’svvenire.
IPPOLITO
– Sarà difficile
che io possa dimenticare il tuo “Orso Ipato” alla prima rappresentazione a
Venezia…
GIOVANNI
– Eravamo nel
settembre del 1797 al Teatro San Giovanni Crisostomo, adesso Teatro Civico.
IPPOLITO
– … tu in
quell’occasione avevi interpretato la parte di Obelerio…
GIOVANNI
– Infatti… le
parole che doveva dire erano troppo importanti e volevo essere certo che
venissero pronunciate in modo adeguato.
IPPOLITO
– La sala era
gremita di pubblico e fra le quinte c’ero io, tua moglie e Berardo…
(Flash
– back) Interno del palcoscenico. E’ calata la tela dell’ultimo atto. Fra le
quinte ci sono Ippolito, Vittoria e Berardo. Applausi vivi e prolungati.
Giovanni – in abito di scena – scosta il sipario e arretra di qualche passo;
tutti e tre si stringono a lui per felicitarsi.
A SOGGETTO
– Bravo!... Complimenti!... Hai fatto
centro!... Senti il pubblico?... Sono te che chiamano!... Vai a ringraziare!...
Vai!... (Giovanni scosta ancora il
sipario e s’inchina al pubblico)
VOCI DAL PUBBLICO
– Bravo!... Bravo!... Bis!... Bis!...
(Giovanni rientra fra le quinte)
GIOVANNI
– Avete sentito, chiedono il bis, che
cosa significa? Non posso far ripetere il lavoro...
IPPOLITO
– Certo che no! Basterà far ripetere un
pezzo.
GIOVANNI
– E si accontenteranno?
BERARDO
– Si accontenteranno, non dubitare.
GIOVANNI
– E quale pezzo
devo far ripetere?
IPPOLITO
– Il finale del
dramma è il più adatto.
GIOVANNI
– Quello di
Obelerio che si rivolge al popolo?
IPPOLITO
– Proprio quello.
GIOVANNI
– Allora… io
vado…?
BERARDO
– Coraggio, Giovanni, vai!
(Giovanni solleva di nuovo un lembo del
sipario e si presenta al pubblico. Gli applausi crescono di intensità e si
spengono. Nel silenzio Giovanni incomincia a recitare.)
GIOVANNI
“Volgiti a tutto
il popolo
raccolto e il popol parli.
Sì, generoso
popolo, sì parla,
finché il puoi,
parla e verrà forse giorno
purtroppo in cui
d’aver ti sia vietato
una mente che
pensi, un cor che senta,
e una lingua
onde espor sensi e pensieri.
Or tu, sien
grazie al ciel, libero sei,
e finché tu
sarai semplice e puro
libero ognor
sarai!“
(applausi
scroscianti e prolungati; voci di consenso e di evviva)
Tela
Estratti da opere storico – letterarie